Noi, a bordo della Humanity1

La vita sulla nave della ONG tedesca SOS Humanity impegnata nel soccorso dei migranti nel Mediterraneo, che ha scelto Siracusa come porto base per il cambio degli equipaggi

Ormai è diventato un gesto automatico. Attraversando il Ponte Umbertino lo sguardo si rivolge verso il Porto Grande di Siracusa, proprio dove c’è la sede della Guardia Costiera, alla ricerca della sagoma della Humanity1: per capire se è ripartita per le missioni di soccorso nel Mediterraneo, oppure se è rientrata per la rotazione degli equipaggi. A volte la visione è curiosa: la Humanity1, una nave di 60 metri di lunghezza e 11 di larghezza, è ormeggiata sul molo tra colossali navi da crociera, pescherecci, barche per i tour turistici e corvette della marina militare. Un’immagine che da sola descrive i tanti modi di vivere e andare per mare. La nave Humanity1, la cui prima missione di soccorso risale al 2022, è stata costruita nel 1976 ed era destinata inizialmente alla ricerca scientifica marina (il suo nome iniziale era Poseidon). Viene ritenuta una delle imbarcazioni di soccorso delle ONG più grandi e meglio equipaggiate del Mediterraneo: può trasportare fino a 300 persone (è capitato però che fossero soccorsi anche più di 400 naufraghi), a bordo è stata predisposta un’area protetta per le donne, una per i minori e l’infermeria. Ogni missione è organizzata per restare in mare dalle 3 alle 4 settimane. Alla fine di ogni periodo è prevista la rotazione degli equipaggi. A bordo della Humanity1 veniamo accompagnati a visitare gli spazi della nave mentre inizia il racconto che vi proponiamo. Sono i primi di ottobre, dopo una lunga sosta tecnica al porto di Siracusa, il nuovo equipaggio si è formato e si appresta a partire. Tutti sono indaffarati, chi al computer chi eseguendo gli ultimi lavori di manutenzione della nave: in sottofondo si sentono colpi ritmati di martello sul metallo. Di sicuro questa è una fase molto impegnativa, fatta di training (formazione) operativi, di passaggio delle consegne da un equipaggio all’altro e di riunioni di coordinamento in presenza e on line: con la sede della ONG SOS Humanity a Berlino, con l’equipe di supporto psicologico, con quella di consulenza legale, con le altre ONG in pattugliamento nel Mediterraneo. E’ in questo clima che si svolge la nostra conversazione con Viviana (omettiamo i cognomi per proteggere l’identità dei membri dell’equipaggio, n.d.r.), coordinatrice delle squadre di soccorso in mare, e con Christina, parte del Crewing team e •••responsabile del reclutamento e della selezione dell’equipaggio operativo.

Come potremmo descrivere questa fase a bordo della Humanity1?

“Ormai – spiega Viviana – il nuovo equipaggio è al completo. Abbiamo in programma una settimana di training molto intensa. Io, ad esempio, sto addestrando la mia squadra per il soccorso in mare, sia per la parte teorica che per quella pratica.  I medici, poi, ci formano per le attività di primo soccorso: ognuno di noi deve essere in grado di intervenire in caso di emergenza medica sia a bordo che sui gommoni di salvataggio. Dedichiamo molto tempo anche alle attività di post soccorso che riguardano la “cura” delle persone salvate: dalle registrazioni, alla distribuzione dei beni di prima necessità, oppure dei pasti. Finita questa prima settimana di training saremo nel frattempo in navigazione quindi faremo simulazioni di soccorsi, da quelli più semplici a quelli più critici, anche a bordo dei gommoni in acqua. Nulla viene lasciato al caso, seguiamo procedure molto dettagliate, ormai collaudate, durante ogni missione”.

Gli equipaggi della Humanity1 di cui parla Viviana sono composti da 28 persone, uomini e donne, dai 23 ai 70 anni, di diverse nazionalità, e da un giornalista ospite: ne fanno parte il personale marittimo (il capitano, gli ufficiali, i marinai, gli ingegneri), l’equipe medica (il medico, l’infermiera, l’ostetrica e la psicologa), il gruppo di soccorso in mare, il personale di cucina e gli addetti alla comunicazione. Gran parte dell’equipaggio è costituito da persone con esperienza, in parte è stipendiato (è il caso dei marittimi), mentre le altre figure presenti a bordo, si tratta di una minoranza (12 persone), sono volontari scelti dopo una lunga e approfondita selezione.

Abbiamo scelto di chiamarci SOS Humanity – sottolinea Christina – e vogliamo essere coerenti con il nostro nome perciò ci rivolgiamo a persone di tutte le nazionalità. Ci arrivano a bordo centinaia di domande di partecipazione da tutto il mondo: da uomini e da donne di tutte le età.  Prima di contattare le persone valutiamo molto bene il curriculum: il profilo professionale, l’esperienza lavorativa, la conoscenza delle lingue. Nella fase successiva si svolge un’intervista on line che può durare anche due ore. Abbiamo sviluppato un sistema di domande per capire a 360 gradi che essere umano abbiamo di fronte: ci interessa approfondire in particolare la sua motivazione, cosa pensa su determinati contenuti, capire se è pronto ad affrontare, dal punto di vista psicologico, un’esperienza così impegnativa e situazioni di stress intenso e prolungato. Occorre poi valutare quali persone faranno parte di ogni equipaggio: dobbiamo infatti preoccuparci di formare squadre che possono stare bene insieme. Poi, come ha già spiegato Viviana, i componenti di ogni equipaggio vengono accompagnati e coinvolti attraverso training, la partecipazione a meeting, a incontri di coordinamento etc.”.

Qual è lo stato d’animo, l’aspettativa, con cui iniziano queste missioni in mare?

Dipende! – prosegue Viviana. Bisogna distinguere fra chi fa questa attività di soccorso da più tempo e chi ha meno esperienza, oppure è più giovane. Chi partecipa le prime volte vive la missione con un forte impatto emotivo, in modo più totalizzante, ed è bello e giusto che sia così. Questo deriva anche dal fatto che i volontari sono fortemente motivati ad offrire le loro competenze per una ragione nobile: salvare vite in mare. Chi invece ha più esperienza conosce bene il contesto, le dinamiche, e probabilmente sa cosa aspettarsi non solo rispetto agli eventi esterni che possono accadere, ma anche da se stesso. Perciò chi ha più esperienza può supportare e sostenere chi ne ha meno”.

Quali sono le situazioni che mettono più a dura prova l’equipaggio?

“La nave è una piccola comunità – racconta Viviana. Questo costringe le persone che vivono e lavorano a bordo ad avere degli spazi molto limitati. La nostra vita si svolge in sessanta metri di nave per più di un mese. Capisci che questo già potrebbe costituire una limitazione. Però devo dire che da questo punto di vista non abbiamo avuto grandissimi problemi, chi viene a bordo è preparato.

I motivi di maggiore stress possono essere legati ai momenti in cui siamo da molto tempo in mare, non abbiamo richieste di intervento, magari c’è cattivo tempo, hai il mal di mare. Questa attesa, questa non azione, può lasciare spazio alla frustrazione. Noi del team di coordinamento dobbiamo gestire queste dinamiche a livello di gruppo, cercando di tenere sempre impegnate le persone e alta la motivazione. Paradossalmente, quando ci sono tanti soccorsi la situazione è più semplice da gestire dal punto di vista psicologico, perché c’è tanta azione e siamo molto impegnati. Poi, ovviamente, situazioni complesse si verificano durante e dopo i soccorsi. Ci sono soccorsi in cui va tutto bene, non abbiamo tante persone a bordo, anche se poi siamo costretti a fare lunghe traversate per raggiungere un porto di sbarco. Le persone soccorse sono sempre molto traumatizzate, stressate, quindi dobbiamo fare lunghi turni di guardia qui in coperta, anche la notte. Poi ci sono i soccorsi, quelli più critici, con molte persone a bordo, dove ci sono anche vittime, oppure operazioni svolte con il maltempo. Sono tutte situazioni che creano uno stress emotivo importante, soprattutto per chi è nuovo a queste esperienze”.

Quando parte una missione chi decide quale zona del Mediterraneo pattugliare?

“Queste decisioni strategiche le prendiamo noi come coordinatori di soccorso, la direzione di Operations di SOS Humanity e il comandante della nave. Scegliamo zone che non sono coperte da altre ONG, prendiamo decisioni anche sulla base delle condizioni meteorologiche. Appena entriamo in area SAR (zone per attività di ricerca e soccorso in mare n.d.r.), in acque internazionali, informiamo le autorità marittime italiane, comunicando la zona che stiamo pattugliando e che siamo pronti per prestare assistenza e soccorso in caso di necessità. Siamo in costante contatto con la Guardia Costiera, coordiniamo con loro i nostri interventi, non facciamo nulla senza esserci consultati con loro. Comunque operiamo sempre rispettando rigorosamente la “legge del mare””.

Tu Viviana, ci hai raccontato prima che sei la coordinatrice delle squadre che prestano soccorso in mare a bordo dei gommoni. Come vi muovete in questi casi, quali sono gli accorgimenti che adottate?

Quando prestiamo soccorso seguiamo diverse procedure, abbiamo diverse strategie. La prima cosa che valuto sempre, quando iniziamo ad evacuare le persone, è il bilanciamento del peso sulle barche che altrimenti potrebbero ribaltarsi. Sono operazioni che dobbiamo effettuare con prudenza, dobbiamo avvicinarci lentamente, e farli muovere piano. Quando siamo in acqua è importante fare tutto nel miglior modo possibile e in sicurezza: se non ci sentiamo sicuri ci tiriamo indietro. Anche noi abbiamo dei limiti e dobbiamo rispettarli. Il mare è più forte di noi e riserva sempre delle sorprese. Dobbiamo tenere gli occhi bene aperti ed essere reattivi”.

Cosa accade a bordo quando avete tante persone provate ed esasperate da esperienze durissime?

“E’ capitato che avessimo a bordo anche più di 400 persone. Avere in questa nave tante persone – prosegue Viviana – significa non riuscire nemmeno a camminare. I bagni sono sempre affollati con file enormi. A bordo poi devono convivere persone di diverse nazionalità, che fanno riferimento a culture differenti, che provengono da esperienze molto stressanti e traumatiche da tutti i punti di vista, sia fisico che psicologico. Una situazione del genere, peggiorata da queste lunghe navigazioni che ci fanno fare, può provocare situazioni molto conflittuali a bordo, situazioni che dobbiamo cercare di mediare e risolvere. Per questa ragione, come dicevo prima, nell’equipaggio dobbiamo avere persone competenti, che hanno avuto una lunga esperienza nei campi per rifugiati e richiedenti asilo, come i mediatori linguistici, che non devono solo tradurre, ma sapere come parlare ed intervenire. Noi manteniamo sempre la calma, questo è parte della professionalità che abbiamo sviluppato. Anche in queste situazioni così difficili e complesse da gestire cerchiamo comunque di avere spazi anche per noi stessi, abbiamo dei turni definiti, e siamo molto attenti a rispettare gli spazi altrui. La nostra nave si chiama Humanity1 per un motivo: non siamo una nave militare, se c’è qualcuno di noi che ha bisogno di supporto siamo tutti pronti a sostenerci, anche a sostituirci”.

“Noi come ONG – aggiunge Christina – abbiamo un team di supporto psicologico per le persone soccorse, ma anche per il nostro equipaggio. C’è un’associazione tedesca specializzata nel dare sostegno psicologico ai “soccorritori” (polizia, vigili del fuoco, personale delle ambulanze, etc.), che possiamo chiamare in qualsiasi momento. Se ci sono gravi crisi a bordo sono disposti anche a venire qui di persona. E’ accaduto in passato con la nostra nave Aquarius, ad esempio, quando è capitato che una barca abbia chiesto soccorso e noi siamo arrivati troppo tardi. Abbiamo trovato l’imbarcazione capovolta e tracce delle vittime. Questi sono momenti di grande crisi, ci sentiamo impotenti, ci diciamo “se fossimo arrivati prima avremmo potuto salvarli”, vengono fuori i sensi di colpa. Perciò abbiamo sentito l’esigenza come SOS Humanity di avere un sostegno forte al nostro equipaggio”.

Il governo italiano, nel 2023, ha approvato diversi decreti sui temi dell’immigrazione, tra questi il decreto legge contro le ONG, con l’intenzione di ridurre la vostra operatività, in primo luogo attraverso la strategia dell’assegnazione di porti lontani. Come se la responsabilità dell’aumento degli sbarchi fosse da attribuire alla presenza nel Mediterraneo delle navi di soccorso delle ONG. Nonostante i dati diffusi dal Ministero degli interni italiano dimostrino che gran parte delle persone sbarcate sulle nostre coste sia stata salvata dalla Guardia Costiera e da Frontex. Solo il 4% è stato soccorso dalle ONG.

Oltre a questi dati – chiarisce Christina – sono state pubblicate diverse ricerche che provano che non c’è alcun nesso fra la nostra presenza nel Mediterraneo e l’aumento degli sbarchi. La cosa che noi abbiamo potuto verificare nel tempo è che l’aumento delle partenze è determinato invece dalle condizioni meteorologiche. A proposito delle leggi a cui facevi cenno, noi come ONG SOS Humanity abbiamo un team legale che ci supporta costantemente, anche nelle fasi di soccorso e di sbarco, proprio perché la legislazione italiana ed europea su questi temi sono in continua evoluzione e, comunque, ogni legge lascia spazio alle interpretazioni. Insieme ad altre ONG abbiamo fatto un’azione legale contro la decisione sui porti di sbarco che è in corso, e stiamo lavorando per verificare la possibilità di fare ricorsi veri e propri. Stiamo cercando attraverso incontri pubblici, ma anche sui nostri social, di sensibilizzare la società civile su questi temi. Il nostro lavoro non si limita al soccorso e all’assistenza alle persone, ma cerchiamo di rendere giustizia al loro vissuto raccogliendo le loro testimonianze, dimostrando e denunciando le violazioni dei diritti umani che succedono in mare. Da questo punto di vista siamo molto attivi e molto presenti”.

Che cosa sarebbe auspicabile che accadesse nel Mediterraneo per evitare che tanta gente muoia in mare?

“In questo preciso istante – afferma Viviana – per quello che riguarda la situazione in mare, l’unica soluzione è cercare di creare un assetto di ricerca e soccorso che sia coperto sia dalle autorità sia dalle navi delle ONG, che sono presenti nel Mediterraneo proprio per colmare vuoti anche istituzionali. Un’altra cosa che si dovrebbe evitare è dare spazio e potere ai paesi terzi, come la Libia, per effettuare intercettazioni e respingimenti che sono illegali e costituiscono comunque una violazione dei diritti umani”.

Che cosa accade al momento dello sbarco, quando dovete salutare le persone che avete soccorso, dopo giorni e giorni di navigazione, dopo avere conosciuto tante loro storie?

Sia per noi che per loro – ammette Viviana – quello dello sbarco è un momento molto importante, emozionante ed intenso. Durante la navigazione passi tanto tempo con queste persone, condividi con loro piccoli spazi, conosci le loro storie difficili. Da noi si sentono protetti, per loro il primo posto sicuro è questa nave. Al momento di salutarci molti di loro piangono. Nell’ultimo sbarco c’era un Imam, il leader religioso di tutti quelli che erano a bordo, una persona molto carismatica. Prima di scendere è scoppiato in lacrime come un bambino. Ha detto “io non dimenticherò mai quello che avete fatto per noi, per me e per tutte le persone di cui mi prendo cura, anche con la preghiera”. Per loro si apre un nuovo cammino che noi speriamo sia di speranza”.

“Noi di SOS Humanity – conclude Christina – possiamo fare in modo che loro non perdano la vita in mare, su quello che succederà a terra noi non abbiamo più nessuna influenza. Dobbiamo confidare che altre persone e altre organizzazioni, anche gli stati dell’Unione europea, si prendano cura di queste persone che non sono numeri, sono esseri umani: ognuno di loro ha la propria storia, la propria famiglia, ha i propri sogni. La cosa più difficile è lasciarli andare e non sapere cosa ne sarà di loro”.

Articolo pubblicato sul n. 71/2023 del periodico “Laltracittà”

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