L’anno scolastico si è concluso. Niente campanella finale, niente gavettoni dei ragazzi di  quinta

 A loro, e a me, è mancata la relazione tra le persone, quella che rende la scuola la palestra dove impari a stare al mondo

di Donatella Guarino

L’anno scolastico si è concluso. Niente campanella finale, niente gavettoni dei ragazzi di  quinta – che negli ultimi anni hanno preso l’abitudine di salutarsi così -. Qualche classe mi ha chiesto di fare un collegamento per salutarci. Qualche studente mi ha regalato video e poesie, sorrisi e gratitudine.

Niente abbracci né foto ricordo, in classe o nel cortile, niente selfie di quelli “che fa prof, le secca se la posto su Instagram?”.

L’anno scolastico che ricorderò perché diviso a metà si è concluso. C’è il prima, quello della didattica ordinaria, e c’è il dopo, quello della  didattica a distanza .

Eravamo impreparati. E abbiamo dovuto imparare in fretta. Ho seguito quattro webinar sulla valutazione, ho scaricato tre piattaforme, ne ho consultate almeno dieci, ho caricato materiali, preparato schemi, ho inviato  link e messaggi vocali, ho moltiplicato le mie chat di lavoro (sigh!). Ho chiesto consigli e avuto sostegno. Ho navigato per ore. Ho interagito con il registro elettronico e con  la  casella di posta, come prima, più di prima. Sono diventata un tutt’uno con il mio iPad. E ho fatto lezione – ogni santo giorno – tramite una connessione.

È cambiata la comunicazione. E perciò doveva cambiare la programmazione. Questa intuizione è stata immediata ma non è servita a farmi abituare. È cambiato il linguaggio. Prof si blocca, prof mi fa uscire, prof le sto inviando la mail, prof le è arrivata la mail? E questo a tutte le ore.

Sono stati mesi di lavoro intenso, bello ma diverso. Certamente incompleto.

I primi due giorni ero interdetta e disorientata. Ho scritto intanto un messaggio di saluto ai miei studenti per farli sentire vicini.

Uno dei primi compiti che ho assegnato è stata una produzione scritta sulla diffusione della pandemia. Boccaccio e Manzoni erano là. Anche Camus mi ha teso la trappola. Troppo facile cascarci. Lo abbiamo fatto in tanti. Nulla di originale, ma era importante riflettere.

Mi sono guardata indietro, ho guardato avanti, ma era il presente ad avere bisogno di me. Ho imparato prima di subito. A mie spese. Con la mia esperienza non solo di docente ma di persona. Ed è alle persone che sono i miei studenti che ho guardato, che ho pensato. Spesso mi sono messa nei loro panni. E non era sempre comodo. Anzi. Perché la didattica a distanza è entrata nelle stanze, nelle case,  mostrando con cinismo le diseguaglianze sociali ed economiche. Non tutti gli studenti hanno le stesse opportunità. Lo spazio privato della famiglia non è per tutti allo stesso modo spazioso, sereno, o morbido e avvolgente. La scuola si è inserita in questa trama delicata. Ancora meglio di prima.

I miei studenti della scuola secondaria superiore hanno vissuto da adolescenti in una condizione straordinaria. E devo dire che la maggior parte di loro è stata bravissima!

Hanno dovuto fare i conti con uno spazio familiare che improvvisamente si è fatto assoluto e hanno dovuto relazionarsi con i docenti, spesso poco avvezzi alle novità, con dei pregiudizi e con poca dimestichezza con la tecnologia. La scuola è indietro su connessioni  stabili e servizi cloud. In sala professori ci sono pc lenti, desueti, con software spesso copiati, con laboratori inadeguati, che non sono all’altezza di supportare Prove Invalsi nazionali, per fare un esempio. Le lim sono spesso ingestibili. La tecnologia a scuola stenta a decollare né tantomeno è pronta per la didattica a distanza. Eppure …

Non si sa che cosa accadrà in futuro e come cominceremo a settembre. So per certo della mole di lavoro che sto facendo ora e dei passaggi ingarbugliati ed estenuanti per far fronte alla burocrazia. Che non è scuola, che non ha nulla a che fare con la scuola.

La colpa non è dell’attuale ministra o degli esperti che lavorano con lei. Il problema è  molto più grave e strutturato ed esiste da molti decenni. La scuola è fondamentale, ma chi deve garantire il diritto allo studio non è all’altezza o non ne comprende il ruolo. Chi dovrebbe farla funzionare spesso la discredita, la banalizza.  In Italia si parla di scuola con aria di sufficienza.

Si ironizza sul lavoro dei docenti. E neanche voglio dirlo di quelli che sparano a zero su ferie e vacanze. Non è di questo che intendo parlare.

La scuola è una struttura, non solo edilizia. È un contenitore. Quello che facciamo è il contenuto e il come lo facciamo è fondamentale. 

La didattica a distanza non è fare le stesse cose, ma con il computer! È stato necessario rimodulare l’orario. Le mie lezioni non hanno mai superato i 45 minuti. La didattica a distanza ha delle regole. Non può scimmiottare l’altra. Non si può pensare di tenere gli studenti incollati allo schermo  in lezioni frontali che non hanno senso.

Ci sono  stati alcuni vantaggi. L’abnorme mole di materiali digitali nelle piattaforme scolastiche – alle quali ricorrevo già da prima –  e l’oracolo di internet sempre là a portata di mano hanno suggerito strategie e metodi. Ho potuto assegnare compiti di realtà che sono piaciuti molto. Ho insegnato come si scrive  correttamente una mail.  Abbiamo parlato di netiquette.

Ma tanti sono i limiti. Mi è sembrato di non finire mai di lavorare perché talvolta ero io a inviare materiali a orari improbabili e a correggere in orari assurdi.

E gli studenti? Ne ho parlato con loro, certamente. Desideravo capire, conoscere il loro punto di vista. Mi hanno detto che hanno scoperto aspetti del loro carattere e sviluppato nuove abilità, hanno imparato meglio l’uso della tecnologia, hanno avuto l’opportunità di studiare anche di mattina. E poi i fuori sede hanno dormito un po’ di più!

Ma si sono stancati di stare, anche quattro ore di seguito, davanti allo schermo. Lo hanno definito una barriera che non considera le persone. È mancato loro il potersi scambiare qualche chiacchiera con il compagno di banco, gli sguardi complici, gli abbracci.

 A loro, e a me, è mancata la relazione tra le persone, quella che rende la scuola la palestra dove impari a stare al mondo, a relazionarti con gli altri, impari a pensare, a stare da una parte. Mi auguro quella giusta. Dove vivi per costruire e rispettare i diritti umani, per non lasciare indietro nessuno.   

C’è tanto lavoro ancora da fare, ma a me il lavoro non spaventa. E poi  questo lavoro l’ho scelto. Ed è il più bello del mondo!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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