Impugnata in Cassazione la terza richiesta di patteggiamento di Giuseppe Calafiore

Per la terza volta la Procura Generale della Corte di Appello di Messina si oppone ai tentativi di Giuseppe Calafiore di arrivare a un patteggiamento per chiudere un troncone processuale riguardante quel Sistema Siracusa che lo vede fra i principali coimputati insieme all’avvocato Piero Amara.
Secondo il Procuratore Generale, dottor Giuseppe Costa, la sentenza emessa dal gip di Messina, dott.ssa Claudia Misale, il 22 febbraio scorso, “giunta all’esito di un tortuoso e sofferto iter processuale nel quale sono intervenute due pregresse pronunce d’annullamento con rinvio di codesta Corte di altre due sentenze rese dallo stesso organo giudicante” deve essere annullata. Da qui l’impugnazione presso la Corte di Cassazione.
Ed effettivamente, nel leggere il disposto della sentenza, ci si stupisce di una per noi evidente sproporzione tra la gravità dei reati ascritti a Calafiore e la pena che si vorrebbe infliggere.
Nella sentenza, ora impugnata, si dichiara il non luogo a procedere nei confronti di Calafiore in ordine ad alcuni reati ormai estinti per intervenuta prescrizione (tantissimi i rinvii richiesti), vengono concesse le circostanze attenuanti generiche “con giudizio di prevalenza sulle contestate aggravanti” e, ritenuta la continuazione tra i reati a lui ascritti e quelli per cui il Tribunale di Roma nel 2019 ha irrogato una pena di 7 mesi e 7 giorni di reclusione (!), operata la riduzione per la scelta del rito, Calafiore viene condannato a 3 anni, 4 mesi e 7 giorni di reclusione. Reclusione? In realtà arresti domiciliari presso la propria abitazione romana “per non meno di 12 ore al giorno, ovvero dalle 21 alle 9”. Davvero si resta senza parole.
Sarà ora la Suprema Corte a decidere se accogliere l’impugnazione del Procuratore Generale Costa, se condividere i motivi che sono stati precisati.
In primis “l’illegalità della misura di sicurezza della confisca obbligatoria”. Secondo il Procuratore Generale nella sentenza del Gip da una parte si contestano gravi reati contro la pubblica amministrazione (corruzione attiva) in concorso con diversi pubblici ufficiali (o incaricati di pubblico servizio, ecc) dando o promettendo consistenti somme di denaro o altre utilità per la consumazione dei singoli reati corruttivi, dall’altra non vengono confiscati beni di congruo valore.
Il caso citato a esemplificazione delle non indifferenti cifre è quello dei 300mila euro consegnati a Denis Verdini, reato derubricato da illecito finanziamento ai partiti a concorso in corruzione.
“Senza poter entrare nel merito dell’esigua entità della pena concordata per il delitto ‘riqualificato’, 17 giorni di reclusione – scrive il procuratore -, si evidenzia la violazione della disciplina in materia di confisca di natura sanzionatoria che prevede la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto per un valore corrispondente e comunque non inferiore a quello del denaro o delle altre utilità date o promesse … confisca obbligatoria non sussumibile (riconducibile, ndr) nella materia oggetto di accordo nel caso di patteggiamento della pena”. In questo caso infatti la somma confiscata è stata di 28.500 euro e per equivalente il valore di due immobili (63.900 euro), quindi “una confisca disposta su beni di valore certamente inferiore al valore suddetto…”. Inoltre, trattandosi di un reato plurisoggettivo che coinvolge chi dà o promette e chi riceve – la corruzione è un reato plurisoggettivo a concorso necessario ed a struttura bilaterale -, nell’eventuale impossibilità di un’esatta quantificazione attribuibile a ciascuno dei soggetti, essa deve essere imputata secondo i canoni della solidarietà interna fra i concorrenti. A maggior ragione, trattandosi della stessa somma indicata nelle pregresse statuizioni del Gip oggetto di annullamento, prima della modifica della contestazione, occorreva, data la rilevanza della corruzione, considerare le utilità derivanti al corrotto per effetto dei reati. Né, specifica il dottor Costa, tali decisioni sono state in qualche modo argomentate.
Altro motivo di impugnazione, l’illegalità della pena per violazione del limite minimo della pena della reclusione. Nel calcolo della pena, con riferimento agli aumenti in continuazione per i vari reati, “è stata erroneamente indicata e recepita in sentenza la pena in aumento per la continuazione di soli giorni dodici per ciascuno dei predetti reati satelliti andando sotto il minimo legale inderogabile fissato in 15 giorni”.
Nei due interventi precedenti la Cassazione ha accolto le motivazioni della Corte di Appello.

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