IFIGENIA IN TAURIDE AL TEATRO GRECO DI SIRACUSA: LE MILLE RILETTURE DEL MITO

Unità di tempo di luogo d’azione… tutti abbiamo studiato le regole canoniche della tragedia, conosciamo il suo ruolo catartico e la sua funzione sociale.

Ma siamo nel 2022 e il famoso pirandelliano strappo nel cielo di carta è ormai uno squarcio quasi insanabile: assistiamo alle vicende della stirpe dei Pelòpidi ma quello che si allestisce è uno spettacolo, non più – purtroppo – un rito, una liturgia, un lavacro dalle passioni mitiche e quindi sempre contemporanee, eterne, di Agamennone Menelao Elena Clitennestra Egisto ricadute sui figli.

Il regista Jacopo Gassmann si è ritagliato uno dei ruoli che attengono ai registi di oggi: un’operazione archeologico-archivistica per schedare ciò che nei secoli ci è giunto – stratificandosi, acquisendo sempre nuove chiavi di lettura – del mito di Ifigenia.

Non per questo il suo è un lavoro di statica musealizzazione: non solo grazie al visual design di Luca Brinchi e Daniele Spanò, che ci mostrano lo splendido Tiepolo pintore di un vertiginoso “Sacrificio di Ifigenia”, manoscritti e iscrizioni, financo la stessa traduzione del testo di Eschilo “letta” dagli stessi interpreti, in un gioco speculare tra opera e recitazione, ma anche grazie alla scenografia – avveniristica, straniante, opera di Gregorio Zurla – e agli allestimenti scenici, che permettono il rispecchiamento, uno dei giochi registici della rilettura: la silhouette, il gioco a nascondere dei pannelli, il teatronelteatro delle schiave greche, contemporaneamente  coro, coriste e groupie in fila su uno straniante red carpet en attendant il compiersi della vicenda/ rappresentazione, gli oggetti scenici, reliquie imbalsamate da guardare (d’altronde “teatro” viene dal latino theatrum, e questo dal gr. ϑέατρον, quindi dal tema del verbo ϑεάομαι «guardare, essere spettatore») che dalle loro teche suggeriscono, evocano, rimandano nel loro essere cosa e simbolo – e dialogano anche con le altre tragedie, come avviene per il grammofono che sembra “rubato” alla reggia di Agamennone, la corona aurea che ci riporta agli splendori micenei e all’avventura di Schliemann; “Il sacrificio del cervo sacro (The Killing of a Sacred Deer)” è un film del 2017 diretto da Yorgos Lanthimos su una sceneggiatura di Lanthimos e Efthymis Filippou, interpretato da Colin FarrellNicole Kidman e Barry Keoghan, presentato in concorso al Festival di Cannes 2017 e vincitore del Prix du scénario: la cerva in scena “conversa” con il mito originario e le sue superfetazioni.

Anna Della Rosa – statuaria, regale – sagoma un’Ifigenia nevrotica, convulsa, diremmo scissa nella sua doppia condizione di prigioniera/ sacerdotessa di riti primitivi; i dialoghi con Oreste-Ivan Alovisio, anche lui dilaniato dalla colpa e vittima sacrificale insieme all’inseparabile Pilade, un Massimo Nicolini guerriero-amico-sposo fedele, eroico, in certi tratti assumono toni da teatro borghese – un “abbassamento” quasi da commedia, fino all’agnizione –; Stefano Santospago, già Egisto in Agamennone, qui è un Toante perfettamente in parte, tiranno vinto dalla superiore volontà degli dei oltre che dall’astuzia del terzetto cospiratore, complici le schiave greche Anna Charlotte Barbera, Luisa Borini, Gloria Carovana, Brigida Cesareo, Caterina Filograno, Leda Kreider, Maria Cortellazzo Wiel, Roberta Crivelli, Giulia Mazzarino, Daniela Vitale.

Il bovaro Alessio Esposito dipinge bene l’atmosfera “arcadica” della storia, così come i Tauri (Guido Bison, Gabriele Crisafulli, Domenico Lamparelli, Matteo Magatti, Jacopo Sarotti, Damiano Venuto) ne interpretano la componente terragna, pregreca.

Rosario Tedesco è un nunzio sui generis – anche con il suo personaggio notiamo l’abbassamento di tono della vicenda al registro quasi “comico” –, un messaggero-fonico-attrezzista che fa da trait d’union tra la vicenda e la sua “trasmissione”-“tradizione”: letteralmente consegna la storia della fuga di Ifigenia, Oreste e Pilade a Toante e contemporaneamente la tramanda, permette che si consegni alla memoria e alle sue infinite rielaborazioni.

La traduzione di Giorgio Ieranò è un buon compromesso fra antico e moderno: le parole immortali di Euripide ci giungono gravide di antica saggezza eppure familiari; il progetto sonoro è di G.U.P. Alcaro, quello audio di Vincenzo Quadarella, mentre il disegno luci – efficace, “teatrale”, a illuminare il gioco di specchi tra vicenda, interpretazione e ribaltamento finale – è di Gianni Staropoli, assistito da Omar Scala (light designer); regista assistente è Mario Scandale mentre Bruno De Franceschi è il maestro del coro; direttore di scena è Giovanni Ragusa, Marco Branciamore il coordinatore degli allestimenti, i movimenti di scena e le coreografie sono disegnati da Marco Angelilli, i costumi – eleganti, a disegnare in bianco nero e rosso i personaggi/ attori che si vestono/ spogliano della loro identità giocando con le loro maschere/ personae – sono di Gianluca Sbicca. Un plauso ai laboratori di scenografia e sartoria della Fondazione e in generale a tutte le maestranze tecniche (Aldo Caldarella e Marcella Salvo coordinano trucco e parrucco e sartoria).

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