“Trenta giorni ha novembre” di Luca Campi domani a Villa Reimann

“Trenta giorni ha novembre”: questo il titolo della nuova silloge poetica di Luca Campi, di cui abbiamo presentato qualche anno fa “L’ora dei lupi”.

Padre varesino e madre brindisina, Luca Campi si è innamorato della nostra terra, che gli ha regalato nuove ispirazioni dopo le prime prove letterarie di trent’anni orsono; è membro del consiglio direttivo de “Il Cerchio”, centro studi di Arti e Scienze di Siracusa, ed ha ottenuto diversi riconoscimenti e premi letterari.

Introdotta dalla prefazione di Patrizia Stefanelli, la raccolta presenta riflessioni, esperienze, pensieri, sensazioni mediate da un’ironia tagliente e spesso da un sarcasmo corrosivo, da un cinismo a volte bukowskiano che nasconde sensibilità disillusa, profondità tradita; se dovessimo trovare una continuità tra questa e la raccolta precedente, potremmo trovare un fil rouge nell’insistenza sul tema dell’ora, del tempo, della stagione e spia ne sono proprio i titoli.

A volte un concetto si cristallizza in un’immagine, che può essere anche un richiamo letterario: ad esempio, il volo baudelairiano dell’albatro è quello del poeta che “goffo e titubante” non sa “che volare” pur abitato dalla “disperanza” (“L’albatro”; “Preghiera”); “scrivo di vascelli fantasma” (“Smetto quando voglio”).

Poesia è anche viaggio e le indicazioni spazio-temporali di composizione delle poesie lo testimoniano; frequenti i riferimenti alla topografia siracusana e più in generale siciliana, alla geometria dei luoghi e spazi dell’isola e di Siracusa-isola-nell’isola: basti pensare a liriche come “Giudecca” o “Epilogo II” in cui viene evocata persino la mitica osteria di Pillucciu alla Graziella, oppure a “Muto chi conosce il gioco”, in cui affiora il detto siciliano che oscilla tra Pirandello e sapienza popolare.

Non mancano gli omaggi poetici a figure come quella dell’indimenticato Sebastiano Tusa o di Andrea Camilleri, che dona anche il titolo di una poesia all’autore (“La pazienza del ragno”).

Campi gioca con le parole – inserisce anche hapax come “trucibaldo” o “cangianza” –, gioca con gli a capo tentando di trasmettere una sua idea di ritmo, gioca a spiazzare il lettore con un finale che spesso ribalta le premesse dei primi versi.

Se ne parlerà il 21 luglio prossimo alle 19 nella splendida cornice di Villa Reimann a Siracusa, nell’ambito della rassegna “Estate a Siracusa”.

Frattanto, qualche domanda all’autore.

Quale necessità, quale “urgenza” poetica ti ha spinto a raccogliere le tue poesie più recenti?

La necessità, l’urgenza poetica che mi ha spinto a raccogliere le poesie più recenti si configura come una sotterranea volontà testamentaria, percepibile soprattutto nelle liriche intitolate “Cane di mannara”, “Un’altra celia” e “Cenere”, unita a quel desiderio di lasciare un segno del mio passaggio e di onorare alcuni significativi incontri con persone che, a loro volta, hanno veramente lasciato un segno tangibile ed universalmente riconosciuto per l’eccellenza della loro opera, come si può notare nelle poesie esplicitamente dedicate al maestro Andrea Camilleri ed al compianto archeologo Sebastiano Tusa.

Il breve racconto al centro del libro conferma il desiderio di celebrare e ringraziare una terra tutta, quale la Sicilia, nel tramite di una esperienza forte e segnante per un Lombardo di nascita che, pian piano e consapevolmente, è divenuto “Siciliano per Cultura” (ringrazio tra l’altro Corrado Di Pietro per l’acutezza di lettura).

“Trenta giorni ha novembre”: spiegaci questo titolo così evocativo – l’infanzia, le filastrocche, la memoria, il tempo… cosa lo lega alle liriche?

Nel titolo “Trenta giorni ha novembre” emergono due segnali: il primo riguarda il calendario annuale, quello del quotidiano e degli accadimenti che si succedono; il secondo riguarda il senso del tempo che passa, la dimensione del finito e dell’infinito. Nel primo vanno a confluire tutti quei componimenti che cadenzano i ritmi del quotidiano: in “Oggi”, per esempio, dove l’alternanza fra la notte e il giorno rimanda alla dialettica fra demoni e angeli, con tutto il corredo esistenziale e spirituale che si porta dietro (Chissà oggi dove sei / se questa notte eri coi demoni / o tra gli angeli / e dov’era questa notte il mio angelo?).

Nel secondo possiamo annoverare “L’albatro”, due sole terzine quasi confessionali: come l’albatro a terra / incede goffo e titubante / così io cammino in questo tempo magro // e prossimo a nessun luogo / dispiego le mie ali rugginose / non sapendo che volare.

Per quanto riguarda la particolare aggettivazione (goffo, titubante, magro, rugginose) utilizzata, essa simboleggia sfumature esistenziali che connotano una certa pesantezza di vita, una stanchezza di passo, come avviene al bellissimo uccello quando si sposta a terra mentre nel cielo si libra come una piuma. Accade questo ai Poeti: si sentono spesso a disagio nelle strade del mondo, nei gangli di una società che li fagocita e li opprime, forse perché anelano a quella libertà di pensiero e di azione che urge nei loro cuori.

Parlaci dei luoghi del libro: come può un luogo divenire terra ispiratrice di poesia e luogo poetico essa stessa?

Ogni poesia riporta in calce le città, i quartieri, le località, oltre alle date, in cui ho avvertito l’impulso dell’ispirazione, la prima illuminazione, per dirla con Rimbaud, sulla quale poi si costruisce l’intero componimento. Si procede per gradi e per “illuminazioni”, di verso in verso, come per aprire innumerevoli stanze, ognuna con una propria luce. Ed è una luce stanca, che disegna ombre e confini incerti, come in “Serenissima”: Torneremo a visitar pagliacci / e spaventapasseri / dietro la Scuola grande di san Rocco // poi da Campo San Polo / fino al miracolo di Rialto / sbagliando calli e fondamenta // disciolta in un battesimo di confetti / sconsacrata e mai più ricomposta / Serenissima ti ricorderai di me.

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