Sul ‘dramma’ del giudizio

Sul saggio, appena uscito – “Il dramma del giudizio” (edito da Mimesis) –, di Alessio Lo Giudice, docente di Filosofia del diritto all’Università di Messina, si converserà sabato 29 aprile, alle ore 17,30, all’Urban Center di Siracusa, con la partecipazione, oltre che dell’autore, della psicologa e psicoterapeuta Margherita Spagnuolo Lobb e di Michele Consiglio, magistrato della Corte di Appello di Catania, moderati dal sottoscritto. Per quanto prudenza e cautela mi imporrebbero di stare sul bordo di una mera descrizione dei vari punti del saggio – evitando così l’azzardo di darne un “giudizio” – in verità ciò che posso dire senza timore di smentita è che i temi del saggio di Alessio Lo Giudice costituiscono un lavoro di spessore, un testo che squaderna con acume un’ampia costellazione dentro cui «il tema, o l’atto del giudicare» è venuto declinandosi, non solo sul piano giuridico-giudiziario – che è certamente quello più pregnante perché ne va della sfera della libertà del soggetto coinvolto –, bensì anche concettuale, filosofico, estetico e letterario.

Si tratta di mettersi di fronte al compito prioritario di trovare il giusto fondamento, la legittimità del “giudizio” – «chi (e come si) giudica chi?». Nella ricerca e individuazione dell’archè, cioè del luogo che costituisce il principio originario per poter giungere ad un approdo che fondi la piena legittimità/validità dell’atto, del pronunciamento, della decisione del “giudizio”, è necessario mettere in luce e sviscerare (per comprenderli e neutralizzarli) i dubbi, le ambiguità, i limiti, le aporie (le “crisi”, potremmo dire), sino ai disconoscimenti che attraversano (sino a “pregiudicarlo”) il percorso di raggiungimento del “giudizio”: di quel “giudizio”, di ogni giudizio, preso nella propria singolarità: affinché esso possa trovare valore nel «comune riconoscimento sociale». Altrimenti, il valore del “giudizio” rischia di affondare di fronte all’anomia o all’ipersoggettivismo del nostro tempo, in cui ciascuno pretende e rivendica di poter giudicare tutti ed ogni fatto o vicenda!

Lo Giudice ci propone un itinerario che è, oltre che un scavo archeologico e genealogico, anche un puntuale commento ermeneutico e critico di un’estesa letteratura giuridico-culturale sul “giudizio”, che gli consente di tentare un approdo – il tema kantiano del “giudizio riflettente” – in grado di sottrarre il giudizio, ogni giudizio, sia alla pretesa di un presunto “oggettivismo”, o all’aridità iper-logica di un “algoritmo” – tendenza del tempo attuale, in cui il ruolo travolgente dell’IA (Intelligenza artificiale) tende ad affidare alle “macchine” ciò che sinora è compito umano nella vita sociale –, sia ad un nichilistico rifiuto del “giudizio” in quanto tale: esso stesso effetto nefasto della pervasività mediatica e iper-informativa che dal “web/internet” ha oramai risucchiato tutti noi nella pretesa omologante secondo cui, per dirla con Nietzsche, «non esistono fatti, ma solo interpretazioni». Consapevoli che, se ci si avventura in modo infantile – senza cogliere la provocazione dell’assunto di Nietzsche –, il rischio è che ogni giudizio mostrerebbe solo la propria “infondatezza”!

Non si può poi non segnalare l’appropriatezza del titolo scelto da Lo Giudice – “Il dramma del giudizio”. Egli configura il tratto drammatico del pronunciamento del “giudizio”, proprio perché tale scelta coglie bene il “doppio” senso della «azione del giudicare». In ogni “azione” è implicato il significato della parola “dramma” che, nella lingua greca, oltre alla “azione scenica”, configura quel “dran”, vale a dire l’agire, l’azione in cui è destinalmente coinvolto il protagonista della tragedia – sia esso ad un tempo eroe e/o vittima. Ed inoltre, in un vortice che accentua l’intero senso del titolo, è “pre-giudicata” anche la natura del “giudizio” – l’azione o la “decisione” del giudicare –, dal momento che la parola greca “krisis/krinein” traduce e significa sia “crisi”, ma anche taglio, decisione (nel tedesco, ur-teil), punto di svolta, e cioè “giudizio”. Nel senso che ciascuno, colto o trovandosi in uno stato di “crisi” (di fronte ad una “crisi”) è portato/costretto a scegliere, a decidere. Il “giudizio” è, per se stesso, una decisione/krisis.

Sì che restando all’interno della funzione giuridico-giudiziaria, ogni giudice – davanti ad un processo, vertenza, emanazione di una sentenza, ecc. – non può sottrarsi a “decidere”, in un senso o nell’altro! E nella radicalità del “taglio” che ogni decisione impone, l’azione giudicante è inevitabilmente «un dividere il sì dal no!». Ecco qui, il carattere drammatico che il “giudizio” reca con sé. Potremmo dire, il “totalmente altro”, opposto a quanto il grande poeta, ebreo, Paul Celan, esprimeva in quel suo famosissimo verso: «Non dividere il sì dal no!», in cui poeticamente e concettualmente è espressa la co-appartenenza di bene e male, eternità e tempo, verità e menzogna, colpa e destino. Di qui, pertanto, il carattere di “dramma” che il giudizio reca con sé. Sicché, Alessio Lo Giudice – per sottrarsi all’aporia che l’azione del giudicare sembrerebbe implicare –, da una parte non può che abitare la soglia di un esercizio critico che lo porta a condividere quanto il grande giurista Francesco Carnelutti esprimeva in un articolo del 1949 (“Torniamo al giudizio”), e cioè che, nell’atto del giudicare, «quello, che noi dobbiamo conoscere, è un dramma». Dall’altra, egli non può che tenere un confronto serrato con un altro giurista e raffinato scrittore, Salvatore Satta (autore di un intenso affresco narrativo su vita e figure della sua Nuoro a cavallo tra ‘800 e primo ‘900, dal titolo evocativo, “Il giorno del giudizio”), il quale, negli stessi anni di Carnelutti, amaramente giungeva «alla triste conclusione che la nostra età non vuole il giudizio».

Come scrive Lo Giudice – nelle pagine in cui il suo “specialismo” interroga la funzione giuridico-giudiziaria –, «fare i conti con questo limite e, allo stesso tempo, con la necessità di giudicare compiendo il salto dal conoscere al volere, equivale dunque a fare i conti con il dramma del giudizio»: pensiero che invita ad intendere tale “limite” – anzi, limite da intendere proprio così! – come l’unico “spazio abitabile” affinché il “giudizio” trovi la propria soglia etica nell’inevitabile scarto tra intelletto e volontà, necessità e libertà o, in termini netti – evocando il plesso che mette in gioco la dimensione, davvero drammatica, che il nostro tempo ci squaderna davanti agli occhi –, tra diritto e giustizia, tra “veridicità” della sentenza e verità, tra legge e Nomos.

Mi sono così spinto a dare il mio “giudizio” al saggio di Lo Giudice: vale infatti la pena di leggerlo, sperando di averne stimolato e suggerito la lettura! Giunti a questo punto, solo un invito al lettore perché si faccia catturare dalle riflessioni ricche e colte del saggio. Non potevano mancare cenni alle allegorie e suggestioni estetico-letterarie, oltre che giuridiche, che scandiscono i capitoli, che vanno dai brevi racconti-apologhi di Kafka (“Il processo” e “Davanti alla legge”) alla trilogia dell’Orestea di Eschilo (Agamennone, Coefore, Eumenidi); dalle intense pagine dedicate al raffinato giurista e filosofo del diritto che è stato Franco Cordero ad Immanuel Kant – tra la “Critica della ragion pratica” e “La critica del giudizio” –; da brevi cenni al grande giurista del primo ‘900, Giuseppe  Capograssi, alla “Teoria del giudizio politico” di Hannah Arendt, sino ai riverberi che la filosofia del diritto vive nel suo percorso di innovazione categoriale, oggi.

Mi rimane una sola domanda – problematica, certo! –, che provo a porre ad Alessio Lo Giudice. Tutti noi percepiamo di essere esposti ad una condizione di profonda crisi o di vera e propria “dissoluzione” della capacità regolativa della “mediazione” – funzione che quel “sapere secondo”, o sapere istituito, che è la “forma giuridica”, ha saputo rappresentare sin quasi agli ultimi decenni del ‘900. Sembrerebbe così che, per i giuristi, per analogia, si ponga oggi lo stesso dilemma che poco più di quattro secoli fa Alberico Gentili pose con la sua ingiunzione ai teologi – nell’epoca in cui lo Stato avviava le dinamiche di secolarizzazione –, vale a dire, quel “Silete Theologi in munere alieno” (“Fate silenzio, teologi, su ciò che non è di vostra spettanza”). Come se la dissoluzione della “mediazione giuridica”, facesse risuonare oggi l’eco di una sorta di “Silete Iureconsulti” (“Fate silenzio, giuristi”), impotenti di fronte alle trasformazioni epocali che vedono un’egemonia tecnico-scientifica-algoritmica, mentre un “globo” totalmente interconnesso e unificato dal dominio del “finanz-capitalismo” è scosso da dinamiche di disintermediazione e iper-conflittualità. Ecco la domanda: che ne è del “giuridico” se non si rovescia la tendenza alla spoliticizzazione di un mondo che sembra aver smarrito il senso e la forza della “mediazione”? Come si riscatta un sapere/agire “secondo” – il diritto/la forma giuridica –, se la funzione “primaria” del “politico istituente” (che, come è ben noto, precede il “giuridico”) rimane mero flatus vocis o smarrito nell’imbuto della propria anomia? Può bastare un “giudizio” chiuso nello “spazio interno” dello Stato se l’immagine contemporanea del “crollo del mondo” sembra prosciugare ogni “potenza istituente” in grado di abbracciare il destino dell’era globale?

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