Pane e saline, di Rita Caramma (recensione)

Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e com’è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.” Parole di un avo di Dante, Cacciaguida, che profetizza l’esilio da Firenze del suo discendente, il sommo poeta. L’esilio comporta la perdita delle abitudini come il sapore del pane “sciapo” insieme alla propria libertà. Come l’esilio, sebbene volontaria, è l’emigrazione, specie quella dei nostri avi tra Ottocento e Novecento.

“Pane e saline”, lavoro di Rita Caramma, giornalista e scrittrice (annovera tra le sue pubblicazioni favole in rima, poesie, testi teatrali di cui è anche regista, opere di narrativa e aforismi), ci presenta tutti i problemi socioeconomici del dopoguerra siciliano. Abbastanza inedito per un’opera di narrativa il fondale naturalistico in cui si svolge la vicenda di Natalino (tra emigrazione e nostalgia, guerra e lavoro, stenti e perdite), Mara e degli altri personaggi del romanzo: le saline di Augusta, né campagna né mare né montagna ma un mix originale che richiede un lavoro da coltivatori del mare, da seminatori d’acqua, da pastori di sale.

Le scene di guerra suonano tristemente profetiche del nostro oggi minacciato da un nuovo conflitto alle porte dell’Europa… parlare di guerra, narrarla, farne racconto è somma impresa: non riescono le penne di scrittori e poeti, figurarsi la lingua di un ciabattino, seppure intelligente, sensibile e generoso, perbene come il protagonista della storia di Rita Caramma.

A fare da contrappunto musicale alla vicenda, le voci di Claudio Villa e del Trio Lescano, di Mario Riva, di Modugno, Luigi Tenco e di anonimi popolani dei canti raccolti da intelligenti cultori della memoria; lo stesso Natalino allevia il rimpianto per gli affetti e tutto ciò che ha lasciato con lo joropo e le tarantelle, suonate con l’amato mandolino, ricordo delle prime lezioni pagate con tanti sacrifici…

La narrazione è in terza persona, quasi sempre referenziale, in un discorso indiretto che più che raccontare riassume quanto accaduto in forma quasi di cronaca, referenziale, piana e senza salti lirici. Il tempo del racconto è cronologico, a parte il flashback relativo all’amore di Mara e Natalino e all’infanzia di quest’ultimo. Lo spazio della narrazione oscilla tra un Venezuela in fondo estraneo e una Sicilia continuamente vagheggiata e fonte di nostalgia: piazze, interni di botteghe e abitazioni, caffè e chiese, aule di scuola… e poi le saline, in cui l’uomo strappa al mare con fatica un raccolto come fa con la terra “amara e bella” che tanti siciliani sono stati costretti a lasciare nella speranza di un futuro migliore (quanto simili ai disperati che finiscono nel Mediterraneo, annegati nel sale dell’indifferenza per un pezzo di pane e un sogno di vita nuova).

La lingua è un Italiano semplice, a tratti colloquiale, inframmezzato da qualche espressione dialettale per ricreare il colore locale della vicenda. Sfilano consuetudini, usanze, modi di dire, cibi, festività tipicamente siciliane – i Morti su tutte, con il loro mescolare dolcezza di biscotti, il ricordo dei cari defunti e retaggi di riti ancestrali: una recherche del tempo perduto in salsa sicula.

Resta un retrogusto dolceamaro una volta terminata la lettura: il nostro recente passato sembra essere stato spazzato via dal consumismo, dal materialismo dilagante, dall’industrializzazione selvaggia, dalla globalizzazione che ha reciso memoria e radici, valori, tutto ciò che si portava dietro l’antica civiltà agropastorale sacrificata all’idolo delle magnifiche sorti e progressive.

Il finale è infatti elegiaco: tutto sembra sparire e morire insieme ai protagonisti ma qualcosa rimane.

Le saline, simbolo forse della vita, amara come il sale, avventurosa come il mare che lo genera.

Si spengono ad uno ad uno i personaggi e ne resta la memoria “mentre le saline luccicavano alle loro spalle” (p. 104).

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