L’epica tragica della carne sofferente: Verbumcaru di Burgaretta

Il binario 21 della stazione di Milano, quello da cui partivano i treni veicoli di morte per i deportati della seconda guerra mondiale – partigiani, prigionieri politici ed ebrei, tra cui la senatrice Liliana Segre – è diventato un memoriale.

Sì, memoriali musei installazioni sono necessari perché chi ha subito le atrocità della Storia – uomini contro altri uomini che spesso avevano come unica colpa quella di esser nati – si ritrova spesso a subire, oggi come allora, l’oblio e l’indifferenza.

Ma anche la parola è memoriale: se Orazio proclamava con orgoglio “Exegi monumentum” – ed etimologicamente monumento è la poesia, che ricorda, avverte, ammonisce, insegna –, Foscolo ci ricorda che “l’armonia / Vince di mille secoli il silenzio”.

Non sembrino peregrine queste parole di introduzione alla recensione di “Verbumcaru”, l’ultima fatica poetica di Sebastiano Burgaretta uscita per i tipi di Algra Editore nella collana “Saccurafa”, diretta da Alfio Patti, con la prefazione di Dario Stazzone e le illustrazioni di Francesco Coppa.

Settimana Santa 2019. Settimana di Passione che riassume e raduna e riassomma tutte le passioni dei piccoli cristi senza nome.

La dedica è “A tutti i bambini del mondo, / anche quelli in età adulta o avanzata” e in esergo ci accolgono i versi dell’Eneide in cui si distillano le amarezze e il sale di tutti gli scartati della Terra: “Hospitio prohibemus harenae”.

E ci si affollano alla mente le parole di Izet Sarajlić: “O tenerezza umana, / dove sei? / Forse solo / nei libri?”. “Quod genus hoc hominum?”: che cosa siamo diventati, in quale specie di bestie acculturate ci siamo trasformati? Come si fa sui social ad esultare per la morte in mare di uominidonnebambini, grovigli di carne e alga di fondale che non stanno a casa loro e bussano alle porte inquiete delle nostre coscienze satolle e intontite di vacuità social, di consumismo materialista? Come non pensare alla necessità di un’ecologia del cuore, della mente, dello spirito, per riscoprire quella fratellanza dimenticata a scapito di una “liberté” abusata e di una falsa “egalité” riservata agli happy few, gli eterni oppressori che ci lasciano scannare tra noi come eterni capponi di Renzo?

Gli scafisti, i profittatori, gli eterni Giuda che consegnano la carne comune del fratello, etimologicamente tradendolo, sono detti “‘ntrammagghieri” (v. 13), perché tramano menzogne come lacci tessendo un “textum” di dolore, ingiustizia, prevaricazione, opposto al “Verbumcaru”, alla parola che s’incarna, è “filu e matassa” (v. 30), costruisce ponti, dà voce agli ultimi e ai dimenticati, molce e consola, si indigna e si fa profetica – il “profari” è il farsi avanti di chi pronuncia verità, di chi non teme di discoprire le carni infette del male – e “Verbum” è la carne di Cristo, parola di Dio, “parabula” che è, ancora etimologicamente, arco teso all’incontro, all’unione di sponde “rivales” ma non “inimicae”, “hostiles” – uso il latino perché furono i Romani a chiamare “nostrum” quel Mediterraneo che fu anche fenicio e greco, mare tra le terre, un tempo acqua che abbracciava, ora tomba liquida per migliaia di corpi, parole ormai mute, “paroli sbacantati r’ogni latu” (v. 55).

Ecco le parole programmatiche del cantastorie siciliano, spagnolo, latino, arabo, ebraico, che presta la sua voce ad Alan, ai tanti piccoli della Terra, ai troppi sventurati, truffati picchiati seviziati violentati uccisi lasciati morire, che turbano dallo schermo della televisione o del pc o degli smartphone i nostri sonni a volte complici, spesso indifferenti: “’Uçi vogghju aviri ppi-pparrari, /  ’uçi vogghju aviri ppi-ccantari / sta voca ri lamentu e puisia. / ’Na ’uçi i cantastorii siçilianu / ccô motu assummusu ri ’na vota” (vv. 94-98).

Fino a quando? Se lo domanda l’autore, se lo chiedono i narratori – alcuni, tanti, troppi senza nome, senza destino avrebbe detto Imre Kertész –, s’interrogano gli uomini e le donne di buona volontà.

“Ma quantu voti è sempri ’n autra vota, / nun pozzu fari a menu ìu ri riri! / E a storia ogni-gghjornu si ripeti / sempri a stissa ccâ sô facci sora / suprô schinu rê poviri sbannuti” (vv. 1162-1166).

A partire da pagina 82 inizia una sorta di requisitoria, un canto corale di lunghissimo respiro dove, tra versi sentenziosi, quasi biblici, ancestrali chiodi nel legno inerte dell’indifferenza contemporanea – come “Unni parola manca a carni ttrasi” (v. 1577), che ci rimanda al Verbum che si fa caro – , emerge tutta la fede dell’autore nella parola, nella lingua, vera patria dell’uomo, unica zattera per incontrare l’altro. Senza parola è lo sradicamento, il naufragio della speranza e della convivenza civile e pacifica dell’uomo.

Il misti- e plurilinguismo di Sebastiano Burgaretta – l’autore non è nuovo a questo impasto, a questi ricami, a questi nodi di tappeto fatti di fili-parole diversi e vari – è forse la lingua più adatta a narrare evocare lamentare invocare: un sabir sapiente e colto eppure sapido, lingua franca di mare impregnata degli umori della terramadre che spazza via d’un colpo – mi si passi questo guizzo polemico – le sesquipedali bestialità dette e lette sulla presunta necessità di traduttori dello stesso colore orientamento politico età sesso dell’originale: “verbum” e specie il verbo poetico sono neutri perché come la luce contengono ogni colore dello spettro delle emozioni e dei sentimenti umani. Sebastiano Burgaretta, uomo e poeta e saggista a sua volta tradotto in diverse lingue, siciliano – e che mescidanza c’è nell’essere siciliani -, italiano, europeo, dalla formazione classica, può a buon diritto dar voce a un bambino curdo, a Muhamed, al ragazzo del Mali dalla pagella cucita addosso e a tutte le creature diversamente colorate, dagli idiomi differenti, perché poesia e “pietas” glielo consentono e anzi glielo impongono: “C’è sulu libirtà e sapienza, / chiddha ca manca all’òmmini i ssa stanza” (v. 133-134).

Nei 1644 endecasillabi sciolti di quello che possiamo definire un vero e proprio poemetto, sfilano le drammatiche immagini di tanti, troppi naufragi, respingimenti, di tentativi disperati di volontari. Il verso ritma i singhiozzi, le urla, i pianti, le lacrime, i silenzi, prende e perde fiato insieme alle figure che ritrae. Forse è la prima volta che la letteratura siciliana o italiana creano un’epica dei migranti. Forse non bastano i film e i reportage, forse la voce, la parola nuda possono riuscire, se non a medicare lutti e ferite, a ricordare, a rendere onore se non giustizia alle tante vittime delle migrazioni.

Scriveva Margaret Mazzantini in “Venuto al mondo”: “Ora avrei la cura per i potenti del mondo, per gli uomini in giacca e cravatta intorno al tavolo della finta pace. Bisognerebbe posare il bambino blu su quel tavolo. Dovrebbero restare chiusi in quella stanza senza potersi muovere. Restare. Vedere la morte che fa il suo lavoro metodico, che se lo mangia da dentro. Distribuire panini, sigarette, acqua minerale e lasciarli lì, mentre il bambino si svuota, si decompone fino alle ossa”.

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