INTERVISTA A DOMENICO PISANA: ESSERE SCRITTORI, SICILIANI, ARETUSEI

Domenico Pisana, docente, poeta, critico letterario, teologo e molto altro – è anche anima del Caffè letterario di Modica che porta il nome di Salvatore Quasimodo – non è figura nuova ai nostri lettori.

Recentemente insignito a Instanbul del premio “The Light of Galata”, può vantare numerose pubblicazioni – ricordiamo almeno l’ultima fatica poetica, “Nella trafitta delle Antinomie”, edita da Helicon -, diverse delle quali conosciute all’estero e tradotte in varie lingue, oltre a un gran numero di riconoscimenti.

Lo intervistiamo per voi.

Vincenzo Consolo parla, più in generale, di un modo di essere scrittori siciliani: “Una letteratura più realistica che fantastica, più attenta di altre al concreto e alla società, che non divaga, e che nei suoi migliori esempi, come accade in Sciascia, è contro”. Naturalmente ci sono delle eccezioni, D’Arrigo, ad esempio. Si potrebbero individuare due o più filoni: gli scrittori della Sicilia occidentale, immersi nella storia e gli scrittori della Sicilia orientale, portati maggiormente verso temi esistenziali. Cosa ne pensi?

La tua domanda contiene già in sé due prospettive di indirizzo circa il mondo di fare letteratura in Sicilia. In effetti, non è un indirizzo peregrino, atteso che i romanzi e i racconti di Consolo, nativo di Sant’Agata di Militello (Messina), rispetto alla produzione letteraria sciasciana, sono contraddistinti da un approccio alla narrazione sia di forte realismo ma anche di grande suggestione visionaria e – insieme – dall’uso di una lingua colta e popolare, al tempo stesso.

Già dal primo romanzo di Consolo pubblicato nel 1963, “La ferita dell’aprile”, si nota come l’autore privilegi temi esistenziali raccontando, attraverso la voce di un ragazzo, esperienze di persone umili, piccole avventure anti-istituzionali, forme di solidarietà giovanili, consumate in un paese siciliano all’indomani della Seconda guerra mondiale; questo primo romanzo di Vincenzo Consolo contiene una anticipazione di tutti i temi che gli saranno più cari: il problema del potere in tutte le sue implicazioni, i privilegi, le ipocrisie, la violenza politica e sociale come si vede nel romanzo “Il sorriso dell’ignoto Marinaio” (1976). La visionarietà e la dimensione fantastica di Consolo si trovano soprattutto in “Lunaria” (1985), ove il lettore ha la possibilità di cogliere un dialogo fiabesco di sapore leopardiano.

Se andiamo poi al romanzo del 1992, “Nottetempo, casa per casa”, con il quale Consolo vinse il Premio Strega, notiamo come lo scrittore si abbandoni ad una fantasia narrativa eccezionale incentrata su un uomo, un “lupo mannaro” che, inseguito dalla luna, corre gridando i suoi tormenti per le contrade e le colline argentate di ulivi. Giunge a Palermo una piccola comunità di forestieri stravaganti, cultori di misteriosi riti esoterici, di nozze pagane con la natura, guidati da un moderno superuomo, Aleister Crowley, venuto a giocare in un paese mediterraneo forse l’ultima delle sue provocazioni teatrali… In questo romanzo emerge una dimensione esistenzialista forte atteso che lo scrittore si abbandona ad una evocazione lirica di tanti destini individuali e di una intera civiltà.

Sciascia è più settoriale, si muove, invece, con una prospettiva di grande realismo, atteso che è stato sempre legato, nella sua esistenza di uomo e di scrittore, alla concretezza storica, è stato un “cercatore di verità”, una verità non dogmatica ma con una visione laica, tant’è che non esitò a mettersi in una linea di contestazione con un santone del giornalismo italiano, Eugenio Scalfari, Direttore de “La Repubblica”, coniando quella frase “nessuno è al di sopra di ogni sospetto”. Sciascia è stato – dicevamo – un cercatore di verità, ma in questa ricerca “ha contraddetto e si è contraddetto”.

Sciascia progressivamente matura l’idea che la coscienza che l’uomo ha di se stesso non è in grado di cogliere la verità, che non vi è coincidenza immediata tra apparenza e struttura profonda della realtà, e che dunque occorre una «decifrazione» di tale coscienza.

Per Sciascia la contraddizione appartiene all’ontologia dell’uomo, ragion per cui egli nelle sue opere giunge quasi sempre alla conclusione che non si può pensare la verità come descrizione oggettiva (assoluta) delle cose; la verità, così, diventa un concetto limite, continua tensione, sforzo incessante che rincorre il fluire costante della vita.

Il “sospetto” per lo scrittore di Racalmuto appare dunque una necessità legittima, e dentro i meandri del sospetto appare naturale anche la contraddizione, perché la verità non esiste di per sé e non è qualcosa di rigido, determinato, intoccabile, inviolabile; la verità è ogni verità.

Sciascia attua così un’opera di ‘relativizzazione’ della verità assoluta. Il “sospetto” e il “dubbio” che caratterizzano la vita dell’uomo non possono allora, che aprire la strada alla contraddizione e alla conseguente disintegrazione del concetto di “verità oggettiva”. Si arriva così ad una logica del valore falsa, ma allo stesso tempo necessaria: rinunciare ai giudizi falsi sarebbe un rinunciare alla vita, una negazione della vita: il centro unitario della vita è una finzione che deve essere sempre attiva, per questo deve continuamente a interpretare (e quindi falsificare).

Sciascia ha cercato la verità anche da scrittore, sia trasponendola nella diversa verità della letteratura sia cercandola con gli strumenti stessi e con la specificità della letteratura. Egli diceva:

 “sono arrivato alla scrittura-verità, e mi sono convinto che, se la verità ha per forza di cose molte facce, l’unica forma possibile di verità è quella dell’arte. Lo scrittore svela la verità decifrando la realtà e sollevandola alla superficie, in un certo senso semplificandola, anche rendendola più oscura, per come la realtà spesso è”.

C’è un fil rouge in base al quale hai scelto gli autori da sottoporre alla tua disamina critica?

 Ti riferisci, credo, al mio recente saggio di critica letteraria dedicato a diversi autori dell’area aretusea (uscito per i tipi di Armando Siciliano Editore, n.d.r.). C’è sicuramente un filo conduttore che mi ha guidato, quello di mettere in luce “l’identità collettiva” contemporanea di un’area geografica della Sicilia, e che viaggia tra gli iblei e l’aretuseo, ove, come già in passato, è presente una vivacità culturale rilevante di cui gli autori presi in esame sono una testimonianza apprezzabile nella sua oggettiva espressione.

Gli autori sottoposti alla mia lettura critica sono poeti, scrittori e saggisti accomunati dal linguaggio dell’essere, della spiritualità, dei principi etici, dei valori, e che con le loro opere forniscono un importante contributo di riflessione alla società contemporanea, sollecitando il bisogno di diventare costruttori di bellezza testimoniata attraverso il nesso tra etica ed estetica che pervade ogni forma di arte e letteratura. 

Riesci a intravedere delle linee di sviluppo nella narrativa, nella poesia e nella saggistica siciliana, orientale od occidentale che sia?

Credo che la nostra Sicilia nella sua interezza continuerà ad essere quella grande terra di scrittori che è sempre stata, e che è testimoniata dalla Storia della Letteratura italiana. Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Verga, Vitaliano Brancati, Luigi Capuana, Quasimodo, Bufalino, Sciascia e tanti altri ne sono un esempio. Direi che sul piano culturale c’è un’unica Sicilia nello sviluppo della narrativa, della poesia e della saggistica, ma connotata di variegazioni linguistiche e dialettali diverse, di scelte contenutistiche e stili letterari nell’interpretazione del territorio dell’isola, ma che si armonizzano e si completano nella direzione di orizzonti di sviluppo culturale originali e impareggiabili.

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