E subito, a scacciare via ogni possibile illusione, ogni fraintendimento, qualsiasi aspettativa di lettura “divertente” (nel senso proprio ed etimologico del termine, che ha a che fare con il divergere da un fine, con il deviare per non fare, per non sapere, per non vedere) l’aggettivo “crudele”: “La sagoma” di Daniela Carmosino, uscita nella collana “La Casa di Lilù” per i tipi di RPLibri, nulla ha della favola moraleggiante o peggio ancora rassicurante e consolatoria.
Tutt’altro.
L’aggettivo “crudele” del sottotitolo richiama alla crudezza, alla nudità grezza. Sì, perché la “sagoma” del titolo, Celeste, nasce e cresce in un gelo scabro, tra parole taglienti, allusioni malevole, risentimenti rancure rimorsi. E la sua storia è quasi un Bildungsroman, un romanzo di formazione in forma di prosimetro, di filastrocca inquietante e inquieta.
Colpisce il fatto che l’autrice abbia usato il termine “favola” e non “fiaba”: i personaggi non sono animali ma spesso ad essi sono associati, il finale non è affatto un happy end e un insegnamento, se c’è, è forse il suggerimento di non permettere a nessuno di considerarci “sagome”, disegni in bianco e nero da colorare a piacimento, pure linee da volumizzare o lasciare piatte: “Una sagoma fa felici tutti” ma non è felice.
Celeste è “sagoma” da sempre e rischia d’esserlo per sempre, puro contorno, niente a che spartire con l’accezione giocosa del termine.
Ad accrescere l’effetto del testo, le illustrazioni, espressionistiche diremmo, realizzate dalla stessa autrice, quasi documentali prove a carico di un processo che sarebbe insieme reale e mentale.
Per dirla con Tolstoj, le famiglie infelici lo sono ognuna a proprio modo: quella di Celeste è una concrezione di infelicità singole – i drammi delle assenze, di padri, fidanzati, figure maschili autorevoli e amorose, si coagulano intorno alla bambina poi ragazzina – e il suo essere “sagoma” rappresenta il suo essere contorno, inconsistenza, stampo con cui si modellano le frustrazioni le impotenze le incapacità di chi dovrebbe amarla.
Lo stile scelto è un esempio perfetto di straniamento: la crudeltà della storia – i piccoli grandi traumi, le solitudini, le mancanze, i vuoti di cui la “sagoma” è metafora – viene narrata in versi liberi come se fosse una filastrocca, in cui le assonanze, le consonanze, le iterazioni, i ritmi vari e diversi la fanno da padroni.
La prefazione del libro è a cura di Marcello Carlino, già docente di Letteratura italiana contemporanea presso La Sapienza di Roma, mentre la postfazione è firmata dallo psicologo e psicoterapeuta Enrico Iraso, e non casualmente: “La sagoma” infatti non è mera opera letteraria né semplice scavo psicologico o caso clinico, ma una favola crudele, appunto, un’esplorazione dei propri contorni e di quelli del mondo attraverso le parole, confini mobili che de-finiscono, contornano le cose, danno loro consistenza. L’uso della seconda persona – non frequentissimo nella scrittura, perché è più semplice dire “io” o “lui/ lei” – destabilizza ulteriormente il lettore, perché è come se il narratore si rivolgesse alle paure, ai fantasmi dell’infanzia di chi legge.
La letteratura, come la cura, forse non guarisce ma dà un nome alle ferite e le lenisce, pur cauterizzandole spesso dolorosamente al fuoco della parola e della verità profonda che attendono esploratori, mani tese, ascolto e dialogo.
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