“La Civetta di Minerva” incontra Valentina Di Pietro, specializzata in neurotraumi, ha scoperto come effettuare la rilevazione delle commozioni cerebrali lievi

“La Civetta di Minerva” incontra per voi Valentina Di Pietro, una delle nostre eccellenze che purtroppo ha dovuto fare le valigie per lavorare all’estero: il classico cervello in fuga che ha scelto di prendersi cura, ironia della sorte, proprio dei cervelli.

Sì, perché Valentina Di Pietro è specializzata in neurotraumi e da Birmingham protegge i cervelli dalle conseguenze dei traumi cranici lievi ma ripetuti.

Con il suo gruppo di lavoro ha scoperto come effettuare la rilevazione, grazie a un semplice tampone salivare, delle commozioni cerebrali lievi, che però potrebbero degenerare successivamente in demenze o altro.

Qual è stato il suo percorso di studi?

A Catania mi sono laureata in Scienze biologiche e mi sono specializzata in Genetica medica, poi ho conseguito il dottorato di ricerca in Neuroscienze alla Cattolica di Roma, percorsi che mi hanno condotta in Inghilterra (con un postdottorato all’università di Southampton e all’università di Birmingham dove sono lecturer in Neurotraumatologia, qualifica che qui non ha un perfetto equivalente ma che potrei spiegare con quella di un ricercatore confermato che tiene anche le lezioni). Ho trascorso anche dei brevi periodi in America; ho lavorato come consulente scientifica per una compagnia privata, ma il mio scopo è quello di continuare la carriera universitaria.

Ci spieghi in cosa consiste la sua scoperta.

I sintomi della commozione cerebrale rientrano spontaneamente in poche settimane, ma alcune categorie a rischio, quelle che appunto possono subire multipli traumi cranici, possono sviluppare un danno cerebrale cumulativo che può portare a neurodegenerazioni precoci. I soggetti interessati sono vari e diversi: gli atleti di sport da contatto, i militari, ma anche i bambini, dato che sono soggetti a politraumi ripetuti.

Pensavo anche ai pugili “suonati” o a chi va a cavallo.

Esatto. Ma anche ai militari che subiscono le onde d’urto delle esplosioni.

Il problema è appunto il trauma cranico lieve, così quando ad esempio c’è una collisione durante un evento sportivo: la diagnosi è fatta solo sulla valutazione della sintomatologia, non sempre evidente immediatamente. Quindi il problema è riconoscerlo subito e fermare lo sportivo per due-tre settimane per evitargli ulteriori traumi che portino ad accumulare un danno cerebrale – dato che non siamo dotati come il picchio di una sorta di sistema di ammortizzazione per gli urti subiti dal cervello, che è un organo molle.

Con il mio team abbiamo cercato nella saliva dei bio-marcatori che consentissero di effettuare una diagnosi chiara e immediata della commozione cerebrale: si tratta non tanto di proteine ma soprattutto di molecole di micro Rna.

Come si è svolto lo studio?

È stato uno studio lungo e complesso. Abbiamo seguito il campionato di rugby per due stagioni – nella prima il campione è stato di circa 2000 giocatori – facendo mettere a riposo per quindici giorni i soggetti “sospetti” individuati analizzando la loro saliva dopo un contatto o una caduta. La seconda stagione ci ha permesso di validare i risultati: i bio-marcatori individuati combinati insieme indicano se il trauma cranico è avvenuto o meno con un’efficacia molto alta.

Argomenti specialistici nonostante il trauma cranico sia un evento frequente… cosa consiglierebbe di leggere o di vedere per saperne di più?

Non so se conosce il film “Zona d’ombra”, che ha Will Smith come protagonista, sul polverone suscitato nella NFL a causa delle implicazioni economiche del fermo dei giocatori: è stato il dottor Bennet Omalu, neuropatologo nigeriano, a scoprire la CTE (encefalopatia cronica traumatica), malattia degenerativa che colpisce il cervello dopo i ripetuti colpi subiti alla testa.

Immagino il problema negli USA… certo, sarebbe interessante studiare anche altri sport come il calcio. E credo che non sarà facile far indossare delle protezioni agli sportivi – andrebbero tutelati almeno e soprattutto i ragazzi che giocano nelle serie giovanili.

Sicuramente.

Quali saranno le tappe future della sua ricerca?

Allargare il target – dobbiamo indagare sulle differenze eventuali tra uomini, donne e bambini -, scoprire il motivo per cui troviamo questo materiale genetico nella saliva… c’è molto da studiare e lavorare.

Quali sono le tue sensazioni ed emozioni da “espatriata”?

Adesso sono felicemente sposata e ho due figli, ho comprato casa qui e sinceramente non ho intenzione di ritornare in Sicilia, che pure mi manca moltissimo, perché tra qualche anno la situazione che ho vissuto io si ripeterebbe per i miei figli – essere senza prospettive, dover sottostare alla burocrazia e al sistema universitario italiano.

Non sono andata all’estero volentieri – l’accoglienza non è stata affatto calorosa ed essere da sola non mi ha aiutata – ma ora credo che sia stata la cosa migliore sia per me che soprattutto per loro.

Credo anche che un ricercatore italiano all’estero – forse perché temprato dalle difficoltà incontrate – abbia una marcia in più. Se è capace può farsi finanziare per portare avanti le sue ricerche, insegnare… l’Italia mi ha formata e devo proprio ai miei docenti la mia preparazione, ma non tornerei indietro: in passato ci ho pensato e ci ho anche provato ma rientrare sarebbe stato un errore.

Consiglio ai ragazzi di studiare e impegnarsi e spero che l’Italia comprenda l’importanza e la necessità della ricerca.

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